In memoriam

La sera dello scorso 9 marzo ha reso piamente l’anima a Dio il Prof. Mario Palmaro, filosofo del diritto, esperto di bioetica, scrittore, difensore intrepido della vita umana in tutte le sue fasi, grande apologeta e sostenitore della Tradizione della Chiesa, in particolare del motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI.

Raccomandiamo la sua anima alla Misericordia di Dio, all’intercessione della Madonna del Carmine e di S. Giuseppe, affinché al più presto possa godere della beatitudine eterna – ho l’ardire di sperare, tuttavia, che già si trovi in Paradiso. Preghiamo anche per sua moglie, i suoi quattro figli e per il suo inseparabile amico Alessandro Gnocchi.

Da Chiesaepostconcilio del 9 marzo:

“Mario Palmaro è alla fine dei suoi giorni. Accompagnamolo con la nostra preghiera nella sua agonia. Condividendo il suo mondo interiore e i suoi sentimenti per La Bella Addormentata, che dopo il Vaticano II è entrata in crisi, ma che si veglierà. Lui si sveglierà nelle braccia del Signore e della sua e nostra tenera Madre. Di seguito alcuni suoi pensieri.

Da un’intervista dell’ottobre scorso:

La prima cosa che sconvolge della malattia è che essa si abbatte su di noi senza alcun preavviso e in un tempo che noi non decidiamo. Siamo alla mercé degli avvenimenti, e non possiamo che accettarli. La malattia grave obbliga a rendersi conto che siamo davvero mortali; anche se la morte è la cosa più certa del mondo, l’uomo moderno è portato a vivere come se non dovesse morire mai. Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa.
Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura si acuiscono. È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza.
D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un anticipo dell’amore di Dio nell’eternità. Il dolore più grande che provo è l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età. Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello».

E, su La bussola quotidiana.

… Caro direttore, caro Riccardo, perché mai ti scrivo tutte queste cose? Perché questa notte non ci ho dormito. E perché io voglio capire – e lo chiedo ai lettori della Bussola – che cosa deve ancora accadere in questa Chiesa perché i cattolici si alzino, una buona volta, in piedi. Si alzino in piedi e si mettano a gridare dai tetti tutta la loro indignazione. Attenzione: io mi rivolgo ai singoli cattolici. Non alle associazioni, alle conventicole, ai movimenti, alle sette che da anni stanno cercando di amministrare conto terzi i cervelli dei fedeli, dettando la linea agli adepti. Che mi sembrano messi tutti sotto tutela come dei minus habens, eterodiretti da figure più o meno carismatiche e più o meno affidabili. No, no: qui io faccio appello alle coscienze dei singoli, al loro cuore, alla loro fede, alla loro virilità. Prima che sia troppo tardi.

Sulla telefonata ricevuta dal papa

«Ero stupito, meravigliato, soprattutto commosso: per me, cattolico, quella che stavo vivendo era una delle esperienze più belle della vita. Ma ho sentito il dovere di ricordare al Papa che io, insieme a Gnocchi, avevo espresso delle critiche precise al suo operato, mentre rinnovavo la mia totale fedeltà in quanto figlio della Chiesa. Il Papa quasi non mi ha lasciato finire la frase, dicendo che aveva compreso che quelle critiche erano state fatte con amore e come fosse importante, per lui, riceverle». Parole che «mi hanno molto consolato».”
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