Riflessioni di un musicista sul latino liturgico

Unknown

” […] La lingua custodisce quel clima mistico che abitava le chiese, in cui sono cresciuto e che, da ragazzo, non ho mai cercato di razionalizzare; poco m’importa che i vecchi di una volta recitando “Dies irae, dies illa” e storpiando il testo secondo il suono dei diversi dialetti non capissero fino in fondo il significato di quel che stavano dicendo; di sicuro era “religioso” alla lettera il loro atteggiamento, fatto di rispetto e paura (alla latina: sacer et religiosus, qualcosa come il tabù). Il contenuto sentimentale o psicologico del testo, insomma, era preservato. Non penserei mai a musica sacra antica o classica con il testo tradotto in italiano: nella traduzione, per ben riuscita che sia, va perso il misticismo che mi affascina – io sono per la Messa in latino, semmai per un’autobiografica nostalgia e non perché sia un conservatore retrogrado – e si sottopongono all’attenzione del credente concetti inesauribili e complessi che lascerebbero interdetto chiunque (perfino nel comunissimo Pater noster). La gente in chiesa spesso non pensa precisamente a ciò che sta dicendo: prega e basta. Si potrebbe eventualmente proporre la traduzione a fronte (come gli attuali sopratitoli a teatro). A cosa serve, in un momento particolare del rito, allorché ciascuno è intento a guardare nell’abisso della propria anima, sapere esattamente cosa vogliono dire le parole “Ave verum corpus natum de Maria virgine“? […]”

Riccardo Muti, Prima la musica, poi le parole. Autobiografia, Milano 2010 (Rizzoli), p. 159.

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